Strage di via D’Amelio: nuove inquietanti verità Ma già nel 2011…

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Strage_di_Via_d'AmelioDi Valter Vecellio

   Hanno fatto scalpore le rivelazioni di domenica scorsa su “Repubblica” sui retroscena e i “buchi neri” relativi alla strage di via D’Amelio. Ed è naturale: il quotidiano così riassume i termini della questione: “Uno scoop soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino”.

   E ancora: “Si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva – con un provvedimento di sequestro – sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoaccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato. Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quell’intervista non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia – invano cercata dai PM, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta – di cui Repubblica è entrata in possesso. Basta ascoltare la voce di Scarantino per capire che lui aveva già detto tutto, tutto quello che si sarebbe scoperto quasi vent’anni dopo. Ma nulla si doveva sapere allora, c’era solo una verità da far emergere: Vincenzo Scarantino colpevole…”.

   Un’operazione in grande stile: perché sparisce la cassetta con l’intervista; ma sparisce anche “il fascicolo originale del sequestro di quella video-cassetta”. La registrazione recuperata da “Repubblica” “contiene solo una parte dell’intervista concessa da Scarantino. È lunga quasi tre minuti. La versione integrale non esiste più. Ma in quei tre minuti trasmessi vent’anni fa e mai più riproposti il falso pentito dice tutto”. I responsabili della sparizione, sono  uomini dello Stato, persone che hanno il dovere, l’obbligo di cercare la verità, non di occultarla…

   Facciamo un passo indietro. Tutto comincia il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Borsellino: “Il mafioso che si era autoaccusato della strage telefona alla redazione di “Studio Aperto” a Palermo. Per la prima volta ammette di essersi inventato ogni dettaglio sull’autobomba, di avere fatto nomi di uomini innocenti dopo le torture subite nel supercarcere di Pianosa. Passano poche ore e, negli studi della redazione di Italia Uno, arriva la polizia e sequestra tutte le cassette con l’intervista di Scarantino. Il provvedimento è firmato dalla procura di Caltanissetta. L’ordine è quello di cancellarla da tutti i computer, a Palermo e a Milano. Il falso pentito – subito dopo il servizio televisivo – viene raggiunto dai magistrati di Caltanissetta che lo convincono a ritrattare la ritrattazione. È la svolta dell’inchiesta sulla strage di via Mariano D’Amelio. La procura, il capo è Giovanni Tinebra, mette il sigillo sull’autenticità delle rivelazioni false di Scarantino. Per più di quindici anni il “caso” viene dimenticato, fino a quando appare sulla scena un nuovo pentito – Gaspare Spatuzza – che smentisce Scarantino e racconta che ad organizzare la strage era stato lui e non l’altro”.

   Non c’è dubbio: tutto è, insieme, sconcertante e inquietante. E però – e qui lo sconcerto, l’inquietudine, crescono invece di diminuire – non si tratta di una novità. A volerlo sapere, lo si poteva sapere da tempo. Ma lo si voleva sapere?

   Come è noto Borsellino viene ucciso cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci dove rimangono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e la scorta. Sono le 16.58 di un’afosa domenica, quando una 126 Fiat color amaranto, esplode. Per Borsellino e la scorta non c’è scampo. Per quella strage, grazie soprattutto alle dichiarazioni di Scarantino, nel 2002 sono condannati all’ergastolo Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, oltre allo stesso Scarantino. Condanne che reggono il vaglio di ben 14 sedi processuali, Cassazione compresa. Poi, il colpo di scena: sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza il teorema crolla. A vent’anni dalla strage, sono ancora tanti gli interrogativi. Borsellino quel giorno è in vacanza al mare. Sono le 16,40 quando viene comunicata alla scorta la decisione di andare a via D’Amelio dove abita la madre del giudice. Chi era a conoscenza degli spostamenti di Borsellino?

   Quel pomeriggio a via D’Amelio dei ragazzini giocano per strada, non danno fastidio a nessuno, ma un condomino li manda via. Perché? Chi è quel condomino? Si chiama Salvatore Vitale, è un mafioso, abita in quella strada, è il proprietario del maneggio dove andava Giuseppe Di Matteo il figlio di un pentito, che viene rapito e strangolato, il corpo sciolto nell’acido. Che ruolo ha avuto Vitale? Perché nessuno indaga su di lui? Chi ha portato, a via D’Amelio, almeno il giorno prima, l’automobile rubata dieci giorni prima, e imbottita di tritolo?

    “Buchi neri”. Ma non solo. Perché nel novembre del 2011 il settimanale “Panorama” pubblica un’intervista all’avvocato Rosalba Di Gregorio, curata da Andrea Marcenaro. Titolo dell’intervista: “Quel pasticciaccio orribile di via D’Amelio”. Il sommario spiega che Di Gregorio «ha difeso quattro dei sette condannato all’ergastolo per la strage mafiosa, tutti scarcerati grazie a nuove indagini. Ma non è contenta. Perché ha vissuto ingiustizie terribili. Anche sulla sua pelle».

   Ma ora leggiamo quello che dice l’avvocato Di Gregorio, senza dimenticare che lo dice nel novembre del 2011, due anni fa: «Dovevano essere scarcerati 17 anni fa», dice lapidaria Di Gregorio, riferendosi ai suoi assistiti. Si dirà: dichiarazione ovvia, cosa deve fare l’avvocato difensore, ammettere la colpevolezza del cliente?. Ma non è la “normale” difesa di un legale, questa. Questo è un preciso atto d’accusa, con nomi e cognomi: «Estate 1995: fase istruttoria del processo Borsellino-bis. Il pentito Scarantino telefona a un giornalista di Mediaset, che registra la conversazione, e gli dice di voler ritrattare le accuse: ho detto fesserie, sono tutte balle, voglio ritrattare tutto». L’avvocato Di Gregorio racconta poi che il testo di questa conversazione non le è mai stato dato, «perché i pubblici ministeri lo sequestrarono». Fa anche i nomi di questi magistrati, sono tre: “Carmelo Petralia, Anna Maria Palma e Nino Di Matteo”. Il giornalista insiste, e chiede se l’avvocato avesse certezza che la conversazione fosse avvenuta in quei termini. Ne ottiene una risposta senza “se” e senza “ma”: “Con certezza assoluta”. L’avvocato presenta istanza per fissare i termini di un incidente probatorio: «Non venni degnata di risposta, fecero finta di nulla. A tutt’oggi la difesa non è in possesso del nastro»; e accusa esplicitamente la pubblica accusa di aver nascosto e sequestrato gli elementi a favore degli imputati. Esattemente quello che domenica ha rivelato “Repubblica”. Con la differenza che l’articolo di “Repubblica” è del 22 settembre 2013, l’intervista dell’avvocato Di Gregorio del novembre 2011. Dal momento che “Panorama” non è esattamente un settimanale che passa inosservato, e sicuramente quell’intervista all’avvocato Di Gregorio sarà stata vivisezionata parola per parola, eppure nessuna reazione apparente: non i chiamati in causa, non le procure interessate, neppure il Consiglio Superiore della Magistratura…Nessuno.

   Si converrà che non è cosa da poco. Dice anche altro, l’avvocato Di Gregorio. Dice che «fra centinaia di migliaia di pagine, era mi pare il 1995, scopriamo quasi per caso una lettera del procuratore aggiunto di Caltanissetta al suo omologo di Palermo: ti trasmetto i confronti tra Scarantino e i tre pentiti Cancemi, Di Matteo e La Barbera… Se sono stati messi a confronto, ho dedotto io, vuol dire che ci sono tre pentiti che, in tutto o in parte, contestano le dichiarazioni di Scarantino. Non si procede a un confronto, se no. Per cui chiedo di avere il testo dei tre confronti». La risposta è che i confronti non ci sono. Di Gregorio insiste: «E arriva una seconda risposta: gli atti non vi riguardano, perché non parlano degli imputati in questo processo». Il fatto è che invece ne parlavano. Lo spiega lo stesso Di Gregorio: «Quando nel 1997 verranno spiccati i mandati di cattura per il Borsellino ter, tra gli indagati c’è anche Cancemi. Abbiamo scoperto allora la bugia che il confronto non avesse riguardato gli imputati di cui sopra. Altroché se li aveva riguardati. E qui viene il bello. Eravamo in udienza a Torino e i PM ribadirono in aula la loro affermazione. A quel punto chiedemmo l’invio degli atti a Torino per denunciare i PM stessi per false dichiarazioni in atto pubblico. I PM chiesero a loro volta la trasmissione degli atti a Torino per procedere contro di noi per calunnia. Conclusione: la procura di Torino ha archiviato tutto. Come ha fatto? O noi calunniavamo loro, o loro falsavano. In mezzo non c’era niente. Non poteva esserci niente. Eppure la Procura di Torino ha archiviato per tutti. Lì ho capito che Scarantino era sacro». A questo punto occorre chiedersi che cosa sta scritto nel verbale del confronto tra Scarantino e Cancemi; e conviene lasciare sempre la parola a Di Gregorio: «Cancemi aveva detto a Scarantino: ma che dici? Che ne sai tu? Chi ti ha raccontato tutte queste balle su via D’Amelio?…».

   E siamo all’oggi: come mai una cosa denunciata nel 2011 passa inosservata e due anni dopo diventa uno scoop?

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